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IL GIORNO CHE AVREI VOLUTO VIVERE

16 giugno 1933 / Un cronista al seguito di Roosevelt

di Enrico Mentana

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26 agosto 2009

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In quello stesso fatidico giorno conclusivo il Congresso adottò un'altra riforma che cambiava pelle all'America, quel National Industrial Recovery Act dalla difficilissima gestazione, che per la prima volta parlava di minimi salariali, massimo di ore lavorate, diritto di contrattazione collettiva e di rappresentanza sindacale. Un incredibile rovesciamento d'impostazione.
La legge istituiva la National Recovery Administration e la Public Works Administration, che avrebbero dovuto costituire il volano della rinascita industriale. Nell'apporre la firma finale a quei provvedimenti del 16 giugno, Roosevelt disse che «si sta facendo più storia oggi che in ogni altro giorno della storia americana».

Ma il nuovo presidente e il parlamento americano avevano fatto ben altro di miracoloso nel volgere di quei Cento giorni: avevano avuto il coraggio di mettere insieme una serie di provvedimenti senza nessuna strategia complessiva, a volte correggendosi in corso d'opera, andando a lume di naso o mettendo il cuore oltre l'ostacolo delle lobby o degli interessi di partito, ed erano riusciti a rivoltare in speranza la sfiducia dell'America profonda. Così come avevano cominciato a illuminare quella grande parte della nazione, contadina e pre-industriale, avvolta nel buio notturno di chi ancora non conosceva l'energia elettrica, oltre 40 milioni di persone. Il 44% degli americani viveva allora in campagna, in una popolazione che era raddoppiata negli ultimi quarant'anni, grazie essenzialmente all'immigrazione nei quadranti industriali. E il dramma delle aree sottosviluppate non era stato affrontato con le armi a doppio taglio della carità e dei sussidi.

Già da un mese, in quel 16 giugno che avrei voluto vivere da cronista, era stata votata la nascita della Tennessee Valley Authority: ovvero come mettere insieme grandi opere pubbliche, sviluppo idroelettrico, riqualificazione del territorio agricolo, nuova industria e un enorme indotto di lavoro e di entusiasmo. Insomma, il marchio del New Deal, improvvisazione, coraggio, riforme e democrazia. E anche ovviamente un'idea dell'intervento statale che mai prima d'allora un presidente americano aveva lontanamente adombrato.

Ma in quel primo spicchio degli anni 30 segnato dalla depressione, solo il decisionismo di stato sembrava poter smuovere le montagne. Ovvio che succedesse nei paesi retti da una dittatura, col piano quinquennale di Stalin e la diga sul Dnepr (inconfessabile esempio per tutti gli altri) e con la stessa bonifica mussoliniana dell'Agro Pontino; ben diversa la portata della scommessa di Roosevelt, che scompaginava ogni certezza fino ad allora acquisita nell'America capitalista. E del resto mai prima d'allora si poteva immaginare che dalla Casa Bianca sarebbe partita l'idea di un corpo di protezione civile come il Ccc, che dal 1933 al 1942 avrebbe occupato in totale tre milioni di giovani con una paga di 30 dollari al mese, di cui 25 da mandare alle famiglie.

A posteriori in molti tra i critici del New Deal hanno pensato che in realtà quelle scelte servirono a fare movimento, a dimostrare che l'America non subiva passivamente la crisi, a sperimentare un nuovo assistenzialismo, a far "passare la nottata" al capitalismo finanziario; e che gli Stati Uniti uscirono davvero dalla Depressione solo entrando in guerra. Ma i Cento giorni non furono certo solo window dressing, né un mazzo di casualità fortunate. Se al termine di quel 16 giugno avessi potuto intervistarlo, e chiedergli la filosofia di quelle straordinarie scelte, forse Roosevelt mi avrebbe risposto con le parole usate in Tennessee, alla faccia delle ideologie che condizionarono il suo secolo: «Non è né carne né pesce, ma qualsiasi cosa sia il suo sapore piacerà molto alla nostra gente».

26 agosto 2009
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